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Maison Cavalli: tensione finanziaria ed incertezza sul futuro

Il consiglio di amministrazione di Roberto Cavalli ha deliberato con voto unanime di presentare al Tribunale di Milano, una domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo. Sembra essere questa l’ultima decisione presa, soprattutto visti i contatti in corso fra gli attuali azionisti ed alcuni soggetti interessati ad un possibile intervento finanziario.

Ma in questi giorni sono in molti a chiedersi cosa abbia portato il brand, fondato negli anni 70 e diventato simbolo di trasgressione ed eccesso negli anni Ottanta e soprattutto Novanta, a vivere il presente oblio e, addirittura, a rischiare il fallimento. I 450 milioni di euro spesi per il gruppo dall’anno dell’ingresso del fondo Clessidra rappresentano certamente una risposta a questo interrogativo.

Già nel 2007 Roberto Cavalli iniziò a parlare di cessione della sua azienda: l’idea di vendere o comunque trovare soci importanti era legata anche alla mancanza di eredi interessati all’attività. Successivamente però l’attenzione restò sulle sfilate, sugli accordi di licenza (occhiali, ristoranti, arredamento) e sul successo commerciale e di immagine del brand. Nel 2012 di Roberto Cavalli si iniziò a parlare più per questioni economico-finanziarie e di ristrutturazione aziendale, che non per collezioni e sfilate.

Nel 2013 aveva messo a segno una crescita importante, soprattutto considerando il rallentamento dell’intero settore: il fatturato era arrivato a 201 milioni (+9,3% rispetto al 2012), con un ebitda di 22,4 milioni (pari all’11,2% dei ricavi) ed un ragguardevole patrimonio di negozi monomarca sparsi in tutto il Mondo, molti dei quali di proprietà.

Nel 2015 il fondo di private equity ed altri soci avevano dato ben 230 milioni di euro al fondatore. Lo stilista fiorentino, che oggi possiede un 10% del gruppo, aveva deciso di vendere ma ad un prezzo molto alto: nessuno rispose mai ai suoi desiderata. Già a quel tempo la maison aveva la necessità di rilanciarsi: Francesco Trapani (poi uscito dal fondo) ha gestito l’acquisto ma gli amministratori delegati al comando non sono riusciti ad invertire la rotta. La nuova gestione di Clessidra non ha certo lesinato investimenti: ben 60 milioni per nuovi investimenti, nuove aperture in America ed Asia e 50 milioni per il marketing. 110 milioni circa che, ad ogni modo, non sono bastati ad evitare un drastico calo delle vendite.  

Nell’ultimo mese ha iniziato a profilarsi l’ipotesi di gestire questa fase critica attraverso una procedura che potrebbe tuttavia portare alla sospensione di alcune attività all’estero. Sarà il Tribunale ad esaminare la richiesta e stabilire il periodo di durata del procedimento. Il potenziale accordo non è ancora stato definito e Clessidra, ormai giunta da statuto al limite dell’investimento, non può spendere altro capitale.

Dopo lunghe trattative per individuare un acquirente per il gruppo in bonis (discussioni iniziate lo scorso anno), la procedura concorsuale sembra l’unica strada plausibile per garantire un futuro all’azienda ed ai creditori. Intanto prosegue il blocco totale delle attività aziendali, mentre cresce l’incertezza, soprattutto dopo l’uscita del direttore creativo Paul Surridge.

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